La Cassazione segna i confini dell’applicabilità del reato di cui all’art. 612- bis c.p

La Cassazione segna i confini dell’applicabilità del reato di cui all’art. 612- bis c.p

  • Francesca Peverini

La Cassazione con la sentenza n. 39675 del 2023, nell’ambito di un contenzioso sorto a seguito di una situazione di conflittualità fra condomini, segna i confini dell’applicabilità del reato di cui all’art. 612- bis c.p.

La Suprema Corte, infatti, rileva come il delitto previsto dell'art. 612-bis cod. pen., che ha natura di reato abituale e di danno è, invero, integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell'evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio. Sicché ciò che rileva non è la datazione o il contenuto penalmente rilevante in sé dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali singoli segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno dei tre eventi che la norma individua, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen.

Compiuta questa premessa sul reato di cui all’art. 612-bis c.p., la Cassazione compie una distinzione tra il reato di atti persecutori e quello di cui all'art. 660 cod. pen., la quale consiste proprio nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie. Sicché, si configura il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all'art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato.

Infine, i giudici di legittimità rilevano come, in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Orbene, alla stregua di detti principi, la Cassazione accoglie il ricorso rilevando la carenza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'evento quanto all'individuato grave stato di ansia cagionato alle vittime della condotta reiterata accertata, avversato dalla difesa anche sulla base della circostanza, emersa in sede di merito, dell'esistenza di numerose reciproche iniziative intraprese in sede giudiziaria anche civile.

 

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