Violenza Privata: prospettazione di un male ingiusto al fine di ottenere risposte

Violenza Privata: prospettazione di un male ingiusto al fine di ottenere risposte

  • Roberto Soardi

Con sentenza n. 20365 recentemente depositata, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna di due ex Pubblici Ministeri del Tribunale di Trani, rispettivamente alla pena di 6 mesi e 4 mesi di reclusione per concorso in tentata violenza privata.
Ai due imputati era stato addebitato di aver posto in essere, in concorso tra loro, con abuso dei poteri e violazione dei doveri connessi alla loro professione, atti diretti in modo non equivoco a costringere tre soggetti, chiamati a rendere sommarie informazioni testimoniali, ad accusare sé stessi o terzi dell’esistenza di rapporti illeciti in relazione ad appalti per la fornitura di apparecchiature elettroniche finalizzate alla rilevazione di infrazioni al codice della strada.
Nel dichiarare inammissibili i ricorsi avanzati dai due Pubblici Ministeri, la Corte di Cassazione ha anzitutto condiviso un ragionamento svolto in precedenza dalla Corte di Appello di Lecce.
Qualunque fosse stata, infatti, la condizione processuale dei tre soggetti sentiti dalla Pubblica Accusa - i quali, occorre sottolinearlo, erano stati sentiti come persone informate sui fatti e non come indagati -, in nessun caso gli stessi avrebbero potuto essere giuridicamente costretti a fornire risposte conformi ai desiderata degli organi inquirenti, “rappresentando agli escussi che la conseguenza inevitabile del loro rifiuto di collaborare sarebbe stata l’immediata perdita della libertà personale, determinata dalla loro sicura incarcerazione, ad opera degli stessi pubblici ministeri [...]”.
La Suprema Corte ha inoltre riportato, condividendolo, un estratto della sentenza di Appello oggetto di impugnazione, secondo cui “[...] in caso di mendacio o di reticenza, infatti, il magistrato può soltanto ammonire la persona informata sui fatti in ordine alle possibili conseguenze penali della condotta, ma non può rivolgere all’interlocutore espressioni di contenuto minaccioso al fine di indurlo a rispondere. Orbene, non vi è dubbio alcuno che molte frasi rivolte dagli imputati ai tre dichiaranti siano di contenuto minaccioso a siano finalizzate a ottenere, in tal modo, le informazioni richieste [...]”.

Secondo la Suprema Corte, nel caso di specie appaiono indubbie le minacce e le pressioni rivolte nei confronti dei tre soggetti sentiti, ai quali è stata a più riprese prospettata la carcerazione come conseguenza immediata del loro eventuale silenzio.
Condotte che sono state ritenute idonee, secondo la Cassazione, ad integrare il delitto (nella forma tentata) di violenza privata.

La giurisprudenza di legittimità è infatti solida nel ritenere che, ai fini dell’integrazione del predetto delitto, è necessario che “la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdite o, comunque, la significativa riduzione della capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà del soggetto passivo”. Inoltre, essendosi esplicitata la condotta incriminata nel caso di specie nella forma di minaccia reiterata, la Cassazione ha riportato l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità a chiarimento della differenza intercorrente tra il delitto di minaccia e quello di violenza privata.

Tale discrimen è stato individuato nel fatto che “[...] mentre nella minaccia l’atto intimidatorio è fine a sé stesso e per la sussistenza del reato è sufficiente che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico [...] viceversa nella violenza privata la minaccia funge da mezzo a fine e occorre che essa sia diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento non di pericolo ma di danno, rappresentato dal comportamento coartato del soggetto passivo, dipendete dall’atto di intimidazione (o violenza) subito”.
Infine, la Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondato il tentativo delle difese di ricondurre le condotte contestate entro il paradigma normativo di cui all’art. 51 co. 1 c.p., secondo il quale l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità.

Nel caso in esame, infatti, un’esimente di tal fatta non poteva essere invocata, in quanto il reato commesso dai due soggetti imputati si è fondato specificamente su condotte poste in essere in violazione delle norme di carattere processuale fondante il dovere giuridico sotteso alla loro qualifica.
I ricorsi dei due imputati sono stati pertanto dichiarati inammissibili, con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali.

 

® Cagnola&Associati Studio Legale
Riproduzione Riservata