Con la sentenza n. 44170 del 3 novembre 2023 la Corte di Cassazione ha ribadito un costante orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità relativo ai rapporti tra processo penale e accertamenti fiscali.
La pronuncia trae origine da un procedimento instaurato nei confronti nei confronti del legale rappresentante di una società, in relazione al reato di omessa dichiarazione (art. 5 d. lgs. 74/2000). Questi, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, non aveva presentato la dichiarazione annuale relativa a detta imposta quantificata, per l'anno 2013, nella misura di Euro 58.640,00.La Corte di appello di Bologna aveva confermato la condanna alla pena di un anno di reclusione irrogata con sentenza del 27 novembre 2020 del Tribunale di Bologna.
Con il primo motivo di ricorso, l’imputato deduceva la violazione e/o l'erronea applicazione degli artt. 27,111 Cost., art. 5 del d. lgs. n. 74 del 2000, art. 192, 530, 533, 546 c.p.p., il travisamento della prova, l'omessa, contraddittoria e manifestamente illogica motivazione per aver ravvisato nella fattispecie i presupposti oggettivi del reato a lui attribuito. In particolare, mancherebbe, secondo il ricorrente, qualsiasi spiegazione (e autonoma valutazione) degli elementi di fatto in base ai quali è stato ricostruito il volume di affari e, di conseguenza, l'imposta evasa, la quale non sarebbe accertabile in sede penale mediante il ricorso a presunzioni semplici, con relativo ribaltamento dell'onere della prova.
Con il secondo motivo si deduceva la violazione e/o l'erronea applicazione degli artt. 27, 111 Cost., art. 5 del d. lgs. n. 74 del 2000, artt. 192, 530, 533, 546 c.p.p., il travisamento della prova, l'omessa, contradditoria e manifestamente illogica motivazione per aver riconosciuto la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
La Corte di appello, secondo il ricorrente, aveva desunto il dolo specifico dal fatto che l'imputato non aveva presentato per anni la dichiarazione fiscale e aveva mostrato disinteresse rispetto alle richieste e verifiche. Infatti, la mancata presentazione della dichiarazione fiscale non può assurgere, di per sé, a prova della finalità di evasione, né ha rilevanza il fatto che il ricorrente fosse sottoposto a verifiche fiscali o fosse genericamente consapevole del valore non esiguo del volume d'affari. La Cassazione, nel pronunciarsi sul ricorso, segna i limiti all’utilizzabilità delle presunzioni legali previste dalle norme tributarie all’interno del processo penale.
Secondo la Corte, per l'accertamento dell’an e del quantum dell'imposta dovuta è necessario far riferimento alla legislazione fiscale, la quale si avvale, però, in buona misura, anche di presunzioni (non sempre gravi, precise e concordanti). In questa delicata operazione ricostruttiva, il giudice penale deve utilizzare gli strumenti posti a sua disposizione dal codice di rito e, soprattutto, adottare il criterio di giudizio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio che costituisce il corollario della presunzione di innocenza costituzionalmente imposto dall'art. 27 Cost., comma 2. Il giudice non può, di conseguenza, far ricorso alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l'inversione dell'onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell'imputato.
Il giudice penale può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell'ambito delle attività di cui al D.P.R. n. 600 del 1970, artt. 31-bis, 32 e 33, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l'accertamento presuntivo dell'imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest'ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili.
Ne consegue che non v’è spazio nel processo penale per l'ingresso di presunzioni (tantomeno legali) ma solo di indizi, valorizzabili a fini di prova nei limiti e modi indicati dall'art. 192 c.p.p., comma 2, valendo, per il processo penale, uno statuto probatorio suo proprio necessariamente strumentale al tendenziale accertamento della verità (i.e., della corrispondenza al vero) del fatto contestato nell'editto accusatorio. Dunque, le presunzioni tributarie non possono costituire ex se fonte di prova della commissione dell’illecito, ma assumono valore di dati liberamente valutabili dal giudice penale, unitamente a elementi di riscontro che diano certezza della sussistenza della condotta criminosa.
Quanto al secondo motivo di ricorso, relativo all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 5 del d. lgs. 74/2000, si osserva che non è sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa, la quale costituisce solo uno degli elementi del fatto tipico. Secondo la Corte, il dolo specifico richiede un quid pluris rispetto alla mera consapevolezza dell’oggetto dell’omissione.
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