Con sentenza n. 36917 depositata il 7 settembre 2023, la I Sez. penale della Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su un ricorso avanzato da un soggetto avverso un’ordinanza del giudice dell’esecuzione, mediante la quale era stata respinta un’istanza – presentata dal medesimo soggetto – di revoca, per intervenuta abolitio criminis, della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato nei suoi riguardi emessa dal Tribunale di Viterbo il 23 settembre 204.
Nello specifico, il ricorrente era stato riconosciuto colpevole sia del reato di turbata libertà degli incanti che del reato di abuso d'ufficio, in quanto aveva concordato con uno dei concorrenti la predisposizione di un bando di gara "ritagliato" sulla ditta consapevolmente "favorita", e per aver concretamente partecipato – ricoprendo carica pubblica – all'assegnazione dell'appalto di mense scolastiche comunali.
Entrambi i reati venivano però dichiarati prescritti.
In sede di esecuzione, il ricorrente aveva presentato la predetta istanza di revoca sostenendo che la modifica dell’art. 323 c.p. introdotta con d.l. n. 76/2020, avesse circoscritto il perimetro applicativo del reato di abuso d’ufficio, determinando la abolitio criminis della condotta per la quale era stato giudicato, consistente nella generica violazione di principi di correttezza e trasparenza dell’attività amministrativa.
Avverso la decisione del giudice dell’esecuzione di rigettare l’istanza, è stato avanzato ricorso innanzi la Corte di Cassazione sorretto da due motivi.
Più precisamente, veniva anzitutto lamentata la genericità delle affermazioni del giudice dell’esecuzione, mediante le quali veniva sostenuto che la condotta dell’imputato avrebbe comunque contribuito a violare il codice degli appalti; affermazione ritenuta non sufficiente per integrare una specifica regola di condotta prevista dalla legge ed avente forza di legge.
In secondo luogo, veniva puntualizzata l’esistenza di un vizio di motivazione nell’affermazione del giudice dell’esecuzione secondo la quale la condotta del ricorrente sarebbe – in ogni caso – rientrata nell’ipotesi di omessa astensione in presenza di un interesse proprio.
Il ricorso è stato ritenuto infondato.
La Suprema corte ha infatti specificato che “La condotta di abuso d’ufficio di cui è stato ritenuto responsabile il ricorrente, a seguito della riqualificazione, nella sentenza di cui si chiede la revoca, dell’originaria imputazione per corruzione, è la “aggiudicazione” di un appalto pubblico al concorrente con cui era stato previamente concordato il contenuto del bando. La circostanza che l’imputato sia stato ritenuto responsabile di abuso d’ufficio per il suo concorso nell’emissione del provvedimento di aggiudicazione dell’appalto emerge con chiarezza dalla motivazione della sentenza divenuta irrevocabile, in particolare nella parte in cui il giudice della cognizione spiega perché ritiene la sussistenza del concorso tra l’abuso d’ufficio e la fattispecie dell’art. 353, comma 2 c.p., pure contestata dall’imputato, […] per aver concordato con un concorrente il capitolato di gara”.
Secondo i Giudici di legittimità, l’ordinanza impugnata individua e giustifica in modo del tutto corretto l’esistenza nel caso di specie di un obbligo di astensione in capo al ricorrente per quanto concerne il suo concorso nell’aggiudicazione del menzionato appalto.
Risulta dimostrato che il pubblico ufficiale abbia fatto proprio l’interesse del concorrente favorito, ritenendo integrato il presupposto soggettivo del nuovo reato di abuso d’ufficio. Si considera infatti realizzata la violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio prevista dall’art. 323 c.p., come risulta dalla modifica operata ai sensi del d.l. n. 76/2020 che ha modificato il concetto di vantaggio riferendolo strettamente a quello patrimoniale escludendo quello di tipo morale o politico.
Sulla base di queste argomentazioni, la Corte ha rigettato il ricorso condannando il ricorrente alle spese del procedimento.
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