Con sentenza n. 2051 recentemente depositata, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio di autonomia dell’accertamento penale rispetto a quello condotto in sede tributaria.
Nello specifico, la Corte si è pronunciata su un ricorso sollevato avverso una sentenza della Corte di Appello di Firenze, mediante la quale era stata confermata una precedente sentenza del Tribunale di Livorno che condannava un soggetto imputato – tra gli altri – per i reati tributari di cui agli artt. 5 e 10 d.lgs. 74/2000.
Il ricorso si componeva di due motivi.
Mediante il primo motivo, il difensore dell’imputato lamentava la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, adducendo la necessità che venisse sentito il funzionario dell’Agenzia delle Entrate che aveva proceduto all’accertamento al fine di chiarire l’esatto ammontare delle imposte evase, nonché l’inesistenza al passivo della società di insinuazione erariale.
Difatti, come rappresentato dalla difesa dell’imputato, erano emersi elementi nuovi consistiti nella notifica di separati avvisi di accertamento, la cui conoscenza era sopravvenuta in data successiva rispetto alla pronuncia della sentenza di condanna in primo grado.
Il secondo motivo di doglianza era invece riferito alla totale assenza dell’elemento materiale e psicologico dei reati fallimentari altresì contestati al soggetto imputato.
Sottolineava la difesa, infatti, che non si fosse verificata alcuna sottrazione o distruzione della contabilità societaria, precisando che “le scritture contabili, il libro giornale e il libro degli inventari non erano mai stati istituiti, cosicché non avrebbero potuto essere occultati o distrutti”.
Ebbene, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso con riferimento ad ambedue i motivi. Quanto al primo motivo, infatti, la Cassazione ha affermato che il ricorrente “pretende di desumere l’insussistenza del credito verso l’erario dalla mancata insinuazione dell’erario stesso al passivo del fallimento”, sottolineando come trattasi di una circostanza del tutto irrilevante a fini penali.
Inoltre, prosegue la Corte, la sentenza impugnata deve considerarsi come “caratterizzata da particolare ampiezza argomentativa proprio sul punto del diniego di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, giacché evidenzia come gli accertamenti della Guardia di Finanza siano stati approfonditi e articolati”, ribadendo la piena “autonomia dell’accertamento penale rispetto a quello tributario svolto dall’Agenzia delle Entrate”.
Secondo l’interpretazione fornita dalla Cassazione, quindi, la prova della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati ascritti in capo al soggetto imputato deve ritenersi pienamente raggiunta, senza che quanto emerso in data successiva alla pronuncia di primo grado possa considerarsi un elemento di novità rilevante a fini istruttori.
Trattasi, infatti, di atti di accertamento emessi nel procedimento amministrativo tributario, irrilevanti a fini penali.
Inoltre, la Suprema Corte a chiare lettere ha ricordato come “dal sistema del d.lgs. n. 74/2000 – e in particolare dagli artt. 20-21 – emerga la totale autonomia dell’accertamento svolto dalla polizia giudiziaria ai fini penali rispetto a quello svolto dall’Agenzia delle entrate a fini tributari; con la conseguenza che l’eventuale inerzia di quest’ultima [...] non influisce sulla prova dell’esistenza del debito tributario o del profitto illecito rilevanti a fini penali”.
Parimenti inammissibile è stato ritenuto anche il secondo motivo di doglianza, in quanto, a giudizio della Corte, meramente riproduttivo di censure già formulate in sede di appello, compiutamente disattese dalla Corte territoriale.
Pertanto, dichiarato inammissibile il ricorso nella sua interezza, la Suprema Corte ha condannato il soggetto ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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