La Corte costituzionale, con sentenza n. 111/2023 depositata in data 6 giugno u.s., ha ritenuto parzialmente illegittimi gli articoli 64, terzo comma, del Codice di procedura penale e l’articolo 495 del Codice penale. L’effetto di tale decisione consiste nell’allargamento del diritto al silenzio, sino a comprendere anche le domande circa le condizioni personali della persona indagata o imputata.
Sinora, secondo costante giurisprudenza di legittimità, il diritto a non rispondere era stato ritenuto limitato alle sole domande relative ai fatti di accusa, ma non anche a quelle inerenti le condizioni patrimoniali, familiari, sociali, all’esercizio di incarichi pubblici o ai precedenti penali. Il Tribunale di Firenze aveva sollevato la questione di legittimità nell’ambito di un procedimento nel quale era stato chiamato a decidere circa la responsabilità di un soggetto per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le proprie qualità, di cui all’articolo 495 del Codice penale.
Il fatto: l’imputato era stato accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale e, in tale circostanza, aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne, senza però essere stato avvertito della facoltà di non rispondere.
Successivamente, in seguito ad alcune verifiche, era emerso che, in realtà, l’uomo era già stato condannato due volte in via definitiva.
Per i giudici toscani i limiti al diritto al silenzio entravano in forte contrasto con il diritto di difesa, riconosciuto, come noto, dall'articolo 24 della Costituzione, dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nonché dall’articolo 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dalle Nazioni Unite.
La Consulta ribadisce che il diritto al silenzio consiste nel diritto dell'individuo “a non essere costretto” non solo a “confessarsi colpevole”, ma anche “a deporre contro sé stesso”. Pertanto, tale diritto entra necessariamente in gioco nel momento in cui l’autorità giudiziaria - che procede nell’ambito di un indagine - pone alla persona indagata o imputata domande su circostanze che, pur non avendo ad oggetto il fatto di reato, potrebbero successivamente essere utilizzate contro l’indagato/imputato nell’ambito del procedimento o del processo penale, perché idonee ad avere “un impatto sulla condanna o sulla sanzione” che potrebbe essere inflitta.
Situazione che si verifica, appunto, nel caso delle domande incluse nell’articolo 21 delle norme attuative del Codice di procedura penale, che riguardano condizioni personali del sospetto o dell’imputato diverse dalle sue generalità, ma la cui conoscenza da parte delle autorità può determinare conseguenze pregiudizievoli proprio per l’inesistenza del divieto di utilizzare le risposte a queste domande.
La Costituzione, si legge nel comunicato pubblicato dalla Corte, “consente che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all’autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita),ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale, non essendovi per l’indagato o l’imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo a proprio carico”.
Al fine di garantire una tutela effettiva a questo diritto “è dunque necessario fornire all’indagato e all’imputato un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere anche a queste domande; ed è altresì necessario escludere la sua punibilità nel caso in cui egli risponda il falso, quando non sia stato debitamente avvertito di questa sua facoltà”.