Con ordinanza, la Corte di Appello di Campobasso dichiarava inammissibile l’istanza di revisione, proposta ai sensi degli artt. 630, 633 c.p.p. e art. 73 d.lgs. n. 231 del 2001, della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti nei confronti di una società per il reato di cui all’art. 25-septies d.lgs. 231/2001.
Motivazione sottostante all’istanza di revisione era la risoluzione del conflitto, ex art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p. tra la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti dell’ente e la sentenza di assoluzione degli imputati-persone fisiche dal reato presupposto di cui all’art. 590, comma 3, c.p.p. per insussistenza del fatto.
Alla luce del rigetto dell’istanza da parte della Corte territoriale, la società faceva ricorso in Cassazione.
Il motivo del ricorso presentato dall’ente si fonda essenzialmente sul seguente ragionamento: dal momento in cui la struttura generale dell’illecito amministrativo tipizzata dalla legge insiste sulla commissione di un reato presupposto da parte di un soggetto funzionalmente legato all’ente, in mancanza del reato presupposto nessuna responsabilità può essere addebitata all’ente stesso. Dunque, veniva affermato che “è evidente che l’assoluzione delle persone fisiche con la formula “perché il fatto non sussiste” esclude l’accertamento di quegli elementi oggettivi che dovrebbero caratterizzare il reato-presupposto. Si tratta, infatti, di una formula che statuisce l’assenza del reato-presupposto contestato”. Il contrasto, quindi, continuava il ricorrente, “attiene anche ai fatti, diversamente ricostruiti nelle due sentenze in quanto: mentre nella sentenza di patteggiamento, incidentalmente, si è ritenuta posta in essere dagli imputati una condotta inosservante la regola cautelare e, dunque, il reato di cui all’art. 590 c.p., motivo per cui si è ritenuto integrato l’illecito di cui all’art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001; nel giudizio a carico delle persone fisiche si è esclusa che fosse stata realizzata una condotta inosservante della regola cautelare da parte degli imputati-persone fisiche”.
La Corte di Cassazione, giova anticipare fin da subito, ha dichiarato il ricorso inammissibile.
La Suprema Corte ha innanzitutto riconosciuto che il contrasto di giudicati ex art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a) sussiste anche tra l’accertamento contenuto in una sentenza di patteggiamento e quello contenuto in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario e che la procedura di revisione possa essere attivata anche nell’ambito della responsabilità amministrativa degli enti “dovendosi estendere agli enti tutte le garanzie previste per il condannato in quanto compatibili”.
Ha precisato, inoltre, che in tema di revisione il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili debba essere “inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operati nelle due decisioni”.
Nel caso specie, viene sottolineato dalla Suprema Corte che nella sentenza di assoluzione non si è negato il fatto (ossia l’infortunio che ha determinato lesioni gravi al dipendente sul luogo di lavoro),ma si è semplicemente escluso che i due imputati rivestissero una posizione di garanzia.
Pertanto, la Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: “in caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell’ente per contrasto di giudicato – art. 630 c. 1 lett. a c.p.p. – ove in separato giudizio si sia pervenuti alla assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione del suo autore. Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 8 d. lgs. 231/2001, la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato”.
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